Intervista a Stéphane Lissner
Anna Crespi intervista Stéphane Lissner, Sovrintendente e Direttore Artistico del Teatro alla Scala di Milano
Parliamo della tua famiglia. Qual’è stata la figura più importante per la tua formazione?
Alice. La mia nonna russa.
Quanto importante è stata per te?
Nonna Alice è stata fondamentale. Con lei ho trascorso molto tempo della mia infanzia e dell’adolescenza, fino ai diciotto anni.
Tu sei nato a Parigi. Non hai mai vissuto la Russia?
Ho vissuto la Russia attraverso mia nonna Alice e mio padre, che a casa parlava russo. Mia madre era ungherese.
Che carattere aveva nonna Alice?
Era una donna con un carattere molto forte. Aveva una cultura molto profonda, cercava sempre di studiare, imparare. Oltre al russo, parlava l’inglese, il francese, il tedesco; conosceva il latino. Per me ha fatto tanto, era una figura centrale nella famiglia: ha scelto anche il mio nome, mi ha aiutato nella ricerca del mio indirizzo scolastico.
Hai fatto teatro, festival, teatro d’opera…
Ho fatto tutto. Sono stato anche direttore dell’orchestra di Parigi; ho promosso corsi universitari da manager culturale.
A quanti anni hai capito l’importanza che rivestiva per te il teatro?
Molto presto. A quindici anni.
Che importanza ha avuto nel tuo lavoro il tuo amico Marcel Maréchal?
Quando l’ho conosciuto, era già un regista molto noto. Stava facendo un adattamento del Capitaine Fracasse di Alexandre Dumas. Fu Maréchal stesso a presentarmi lo scrittore che stava preparando l’adattamento e ho cominciato a lavorare con lui. Ho iniziato così.
Hai fondato anche un teatro?
Sì. A diciotto anni, con un amico, ho fondato il Théâtre Mécanique. Non trovando un teatro disponibile a ospitarci, abbiamo deciso di aprire noi una piccola sala. L’esperienza è andata molto bene artisticamente, ma male economicamente!
Quando hai scoperto la musica?
È stato ai tempi di scuola, a diciassette anni. Ho scoperto la musica grazie alla mia fidanzata. Andavamo sempre a teatro, ai concerti. La mia passione era per il teatro. Non amavo l’opera. Ho sempre ascoltato molto la musica sinfonica, la musica da camera e la musica per pianoforte. Poi un giorno per caso sono stato chiamato a lavorare al Théâtre du Chatelet. Avevo ventinove anni.
Tu sei sempre stato un uomo libero, o hai blocchi di timidezza?
Per me è sempre stato naturale essere libero e fare quello che desideravo. Anche se mio padre voleva che mi impegnassi in altre discipline, sono andato verso la musica e il teatro, proprio come volevo. Per me è stato uno choc vero e proprio, a ventisette/ventotto anni, scoprire che musica e teatro assieme si chiamavano “opera lirica”. Poi a ventinove anni, come dicevo, sono entrato a lavorare allo Châtelet e cinque anni dopo sono stato nominato direttore.
Hai avuto la possibilità di incontrare importanti personalità del teatro, come Peter Brook e Strehler. Sono stati maestri per te, o anche tu hai insegnato loro qualcosa? C’è stato uno scambio?
Con Peter Brook ho lavorato dieci anni. Abbiamo collaborato a lungo perché eravamo entrambi direttori al Théâtre des Bouffes du Nord. È stato un incontro importante; c’è stato scambio di consigli.
Ho aiutato Strehler quando è venuto a Parigi per diventare direttore dell’Odéon-Théâtre de l’Europe; ho seguito molto da vicino la sua storia a Parigi. Ci eravamo già incontrati al Piccolo Teatro. Era sempre molto gentile con me, molto paterno, ma anche molto duro e, in pari tempo, simpatico.
Puoi indicare una figura che ti ha particolarmente formato?
Pierre Boulez è stato una delle persone più importanti della mia vita. Era un direttore d’orchestra, un musicista straordinario, uno dei più grandi compositori del Novecento. Aveva un grande rigore nel suo lavoro. Ho imparato molte cose da lui.
Altre figure che ti hanno colpito?
Sono tante le persone con le quali ho lavorato, con cui ho avuto rapporti di lavoro molto forti negli ultimi venti/trent’anni: registi, direttori d’orchestra. Ho lavorato a lungo con Bob Wilson, Klaus Michael Gruber, Luc Bondy, Deborah Warner, Patrice Chéreau, Esa-Pekka Salonen, Daniel Harding, etc.
Quando sei arrivato alla Scala, primo sovrintendente straniero, hai trovato un teatro vuoto di produzione, non c’era neppure il 7 dicembre…
Subito Harding mi ha detto di sì per il 7 dicembre, Barenboim per il concerto di Natale; direttori e registi hanno accolto subito il mio invito, come Luc Bondy e Pierre Boulez. Tanti amici hanno collaborato alle mie iniziative.
Capivi che la Scala era un teatro molto importante, o per te era un teatro come tanti altri?
Quando sono arrivato, la Scala per me era solo un teatro come tanti altri: ero venuto per dirigere un teatro, il più conosciuto, il più famoso. Però, a essere sincero, a me della fama, in assenza di programmazione, non è mai importato niente. Conta quello che facciamo ogni serata. Quando sono arrivato alla Scala ho trovato un teatro normale, per cui bisognava lavorare molto soprattutto sul versante artistico.
Hai trovato “difficile” la Scala?
Penso che sia un teatro molto “difficile”, perché tutti, fuori e dentro, vogliono essere protagonisti. La stampa, i loggionisti, i politici: tutti vogliono avere una parte della Scala. Una grande parte del mio lavoro consiste nel difendere il teatro; un’altra, nel fare spettacoli. Si fa fatica a difendere l’istituzione. Difenderla da chi vuole assolutamente avere una parte di questo potere, che non è oggettivamente così grande, ma per alcuni sì. Questa è una difficoltà che non si trova negli altri teatri.
I sovrintendenti della Scala sono passati, nel bene e nel male, come personaggi nella storia italiana: Paolo Grassi, Carlo Maria Badini; anche tu pensavi di poter diventare un personaggio importante per la storia di Milano e dell’Italia?
Non lo so, non m’importa. Penso che la gente potrà capire o no quello che ho fatto tra cinque o dieci anni, oggi è troppo presto per fare un bilancio del lavoro fatto.
Molti considerano la Scala un mito, ma non hanno mai potuto o voluto entrare; tuttavia vorrebbero farne parte.
Ci sono tante persone timide, che non osano muovere un passo. Questo è normale. Da parte nostra, abbiamo aperto le porte ai giovani, a chi prima non era presente; ed esempio, abbiamo sviluppato progetti per la famiglia…
La Scala ha una grande forza di immagine?
A Milano e in Italia ha una grande forza; ma anche al di fuori dell’Italia è conosciuta. La sua forza però sta nella qualità del progetto artistico, la sua esistenza non basta.
Tu sei un uomo molto elegante: hai creato l’usanza di ricevere e salutare il pubblico prima degli spettacoli. Questo ha fatto molto piacere a tutti. Se tu fossi libero da qualsiasi impegno e lavoro, quale nazione sceglieresti per vivere?
Se io fossi libero, penso che mi occuperei di cose umanitarie, mi piacerebbe andare in Africa ad aiutare la gente.
Viaggiare ti stanca o ti rinforza?
Oggi mi stanca un po’, però mi piace molto. Mi fa bene.
In agosto vai a fare una tournée in Giappone. I giapponesi sono bravissimi organizzatori, ma vanno nel panico di fronte agli imprevisti. Tu sai affrontare gli imprevisti?
Sì, dopo otto anni a Milano sono diventato uno specialista nell’affrontare gli imprevisti. La Scala ha fatto scuola.
Il lavoro di Peter Brook, può essere minimalista, con poche cose rende lo spettacolo magico…
Lo definirei “semplice”.
Le tecniche computerizzate, il palcoscenico che sale e scende, la possibilità di usare filmati, le proiezioni possono togliere incanto allo spettacolo?
Dipende dal titolo, dal progetto drammaturgico. Non c’è niente di dogmatico.
Ti sei trovato a scegliere anche scenografie grandiose, come con Michael Levin, che lavora con Robert Carsen. In una mia intervista, mi hanno detto che Parigi è una città distratta, pensa molto a se stessa. È vero?
Non la vedo così. C’è una vera vita intellettuale: è una città con le più belle mostre del mondo, ci sono bellissime librerie, ha cinque teatri d’opera, possibilità fantastiche per la musica.
Sei molto contento di tornare a Parigi?
Sì sono molto contento. Tornare a Parigi dopo dieci anni – ne ho fatti otto a Milano, ne mancano ancora due – mi sembra il momento giusto.
Ti spaventa l’Italia di oggi?
Un po’, sia da un punto di vista sociale che da un punto di vista culturale. Perché non c’è speranza, non c’è un progetto, una visione. Non hai notato che la parola “cultura” non viene quasi mai pronunciata dai nostri politici?
A Milano hai trovato nella sua borghesia amicizie vere, anche non all’interno del teatro?
“Amici veri” è una definizione impegnativa. Quanti amici veri abbiamo nella vita? Io ne ho quattro o cinque.
Tornare a Parigi è una tua scelta, o Parigi ha scelto te?
Parigi mi ha scelto e mi ha fatto una proposta per gli anni che vanno dal 2015 al 2021; Milano non ha fatto offerte.
Milano sa essere molto ingiusta. Quando tornerai a Parigi ti occuperai della Bastille e dell’Opera. Sarà difficile occuparsi di due teatri?
Sarà difficile, ma sono due teatri ben organizzati...
Se tu dovessi scegliere tra prosa, opera, festival, cosa sceglieresti?
La scelta dipende dal teatro. Se la proposta venisse da un piccolo teatro di prosa, mi piacerebbe molto; il teatro di prosa è rimasto nel mio cuore. Ma poi mi ha chiamato l’Opera di Parigi, un teatro che produce di più al mondo: trecentocinquanta recite, uno dei più bei corpi di ballo del mondo, la lirica. Ripeto, dipende dalla proposta. Comunque continuo a leggere il teatro di Cechov, Shakespeare, ma anche i moderni come Claudel. Quando ascolto musica, resto fedele alla musica da camera. Diciamo che sono arrivato all’opera un po’ per caso.
Sei contento di esserci arrivato?
Sono contento della mia esperienza alla Scala. Ho imparato molte cose provenendo da esperienze diverse, con una cultura diversa e grandi difficoltà. Penso che se una persona vuole misurarsi con questo mestiere, dirigere la Scala sia una delle esperienze più importanti che si possano fare. È un teatro italiano che ho cercato di far diventare internazionale. Io ho voluto aprire le porte, perché per me il teatro era chiuso. Ho cercato di aprirlo al pubblico, agli artisti, a tutti con trasparenza. Ho imparato da Grassi che il teatro deve essere una casa di vita, tutto aperto; ed è quello che ho cercato di fare.
Vorresti aggiungere qualcosa? Che domanda vorresti che ti facessi, che ancora non ti ho fatto?
La domanda potrebbe essere: “A quale progetto dovrebbe essere legato il futuro della Scala?”. E la mia risposta sarebbe: “Ci vuole un progetto culturale”.
E per salvare il nostro futuro, il futuro del mondo?
È complicato. C’è bisogno di umanesimo, umiltà, e infine di una visione, una prospettiva, un progetto che tenga conto di tutta la società.
Tu hai una grande famiglia, figli che ti vogliono molto bene. La famiglia è molto importante per te?
Molto. Mi sono risposato e anche Valentina ha una figlia: ora ho quattro figli non più tre. È la cosa che oggi conta di più per me. C’è una bella atmosfera nella mia famiglia.
Aggiungo un’ultima domanda. Sei stato contento degli Amici della Scala e del loro lavoro fatto in questi anni con te? Sia per Prima delle Prime, sia per le pubblicazioni, sia per l’affetto?
Gli Amici della Scala sono per me l’associazione più importante, quella che sento più vicina.