archivio
4 feb 2013
QUIRINO PRINCIPE
VERDI VERSUS WAGNER: ALLA PARI?

di Quirino Principe

ad Anna, agli Amici della Scala

    Quando si accende una contesa, è buona regola supporre che in entrambi i contendenti esista una parte di ragione e una parte di torto. Non sempre. Un’ingombrante eccezione è stata la controversia nata al principio del dicembre 2012, in coincidenza con l’apertura di stagione del Teatro alla Scala. Oramai anche i bulli di borgata e i ministri del regno di Tingutania sanno che il 2013 è l’anno commemorante il due volte doppio centenario: i duecento anni dalla nascita di Giuseppe Verdi e, insieme, di Richard Wagner. Tralasciamo lo squallore miserabile e idiota delle graduatorie e delle classifiche sportive: se Verdi sia il più grande musicista italiano o soltanto il maggiore autore del teatro d’opera, oppure il maggiore operista d’Occidente, o almeno il più frequentemente eseguito (queste due ultime scale axiologiche non si implicano vicendevolmente !), e se Wagner sia soltanto il maggiore autore tedesco di musica per il teatro, oppure il maggior musicista tedesco “tout court”, oppure… per favore, dov’è il pedale del freno? Sì, tralasciamo, e affermiamo un’unica certezza: la straordinaria occasione del doppio duecentesimo compleanno si rinnoverà esattamente tra un secolo, quando probabilmente in Italia tutti i teatri d’opera (Scala compresa) saranno chiusi, o commissariati “sine die”, o diroccati dall’invasione barbarica imminente, o trasformati in moschee, e ciò che io chiamo “musica forte” (e altri, erroneamente, “musica classica”) sarà vietato dal Corano di Stato d’accordo con l’astutissima CEI oppure obsoleto e completamente dimenticato dalle future generazioni. Ulteriore certezza: dinanzi alla presente e preziosa occasione, era comunque non lecito ai dirigenti artistici della Scala, bensì doveroso e vincolante per essi, offrire al pubblico, “in primis” a quello milanese, e non secondariamente al pubblico italiano, europeo, occidentale, e a tutto il vastissimo pubblico orientale che ama la cultura occidentale e la musica d’Occidente, la massima esperienza possibile del lascito teatrale di Verdi e di Wagner, con opportune dosi proporzionali, e con la più alta qualità possibile di prassi esecutiva, di regìa e di allestimento.
    Su ciò non si discute, e infatti nessuno ha discusso. Quando sono stato, a titolo gratuito come al solito, consigliere d’amministrazione del Teatro alla Scala, ho udito il sovrintendente, il direttore artistico, i più loquaci e petulanti fra i miei colleghi consiglieri, i sindaci che si sono succeduti, i sindacalisti, i giornalisti dei quotidiani della più disparata colorazione ideologica, i vari “criticiui” musicali dei quotidiani milanesi e non, ripetere sino alla noia (mia) e allo sbadiglio (mio e di qualche altro) che la Scala è un grandissimo teatro europeo, trasnazionale, patrimonio dell’umanità. Credo fermamente in quest’idea, ma piuttosto che udirla proclamare con enfasi e sentirla divenire il liquido adatto agli sciacqui con collutorio laringeo, preferirei vederla praticata.
    Ora, che cosa succede? La dirigenza della Scala aveva deciso di costruire una stagione ricca di 7 titoli verdiani (Falstaff, Nabucco, Macbeth, Oberto conte di San Bonifacio, Un ballo in maschera, Don Carlo, Aida) e di 6 titoli wagneriani (Lohengrin, Der fliegende Holländer, Das Rheingold, Die Walküre, Siegfried, Götterdämmerung), più una diversa produzione di quest’ultima opera conclusiva del Ring, e questa è stata un’idea raffinata e intelligente poiché permetterà, almeno in un caso che sia uno, una volta tanto e in una città come Milano e in un teatro come la Scala, un sacrosanto raffronto di stile esecutivo e registico, la qual cosa fa bene alla salute. Ebbene, detto questo, ecco lo “scandalo”: la stagione si è aperta con… pensate un po’, c’è da rabbrividire: con un’opera di Wagner !!!!!!!!!!!  Lohengrin !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!   Un’opera futurista, incomprensibile, non italiana, e per giunta tedesca!!!! ORRORE!
    So di essere un tremendo eversore, un anti-italiano, paragonabile ai terroristi, ai brigatisti e ai nemici degli spaghetti e delle fettuccine all’amatriciana. Ebbene sì, lo confesso, contrito e con la cenere sul capo: io sono d’accordo con la sovrintendenza e con la direzione artistica della Scala. Anzi, soprattutto sono d’accordo con me stesso e con la buona creanza. Dinanzi alla canea di coloro che, strillando e abbaiando e latrando, si sono abbandonati all’idiozia delle graduatorie, delle priorità dei “diritti” (???!!!), del “patriottismo” (ma guarda un po’ dove si va a cacciare il patriottismo, in un paese in cui lo Stato cala le brache dinanzi all’incessante invasione da parte di stranieri dalle usanze né democratiche né civili e anzi a dir poco indecenti, e la Chiesa fa la mosca cocchiera), mi permetto di dire:
     a) Milano, contrariamente a ciò che alcuni incautamente hanno strillato, non è stata “la città di Verdi”, il quale anzi detestava Milano e aveva il dente avvelenato contro una città dal cui Conservatorio egli era stata escluso all’esame di ammissione. La Scala non è stata “il teatro di Verdi”: Verdi abitò a Milano il meno possibile, e la stragrande maggioranza delle sue opere teatrali ebbe il suo battesimo del fuoco su altri palcoscenici.
     b) Tra Verdi e Wagner era elegante e segno di cultura civile trovare un anello di raccordo: esso non poteva essere se non Lohengrin, la prima opera di Wagner rappresentata in Italia (1° novembre 1871).
      c) Se Milano vuol essere una città europea, deve compiere scelte europee. In un anno nel quale inevitabilmente sarebbe ritornato lo stucchevole e stolido quesito, se sia figura più importante nella storia della musica Verdi o Wagner, sarebbe stato un atto di rozzezza, un segno di provincialismo spaghettaro da mezze calzette, inaugurare la stagione della Scala con un’opera “del nostro”, mentre è stato un atto di signorilità superiore aprirla con un’opera “dell’altro” (tanto difficile capirlo?): tanto più che lungo la stagione ci saranno molte occasioni per ascoltare Verdi, non vi sembra?
    Malgrado l’evidenza delle ragioni che ho esposto, la lagna e lo starnazzamento di protesta per questa priorità accordata a Wagner sono stati il Leitmotiv dell’apertura di stagione scaligera. È stato penoso udire, nei giorni precedenti il 7 dicembre, le omelie di personaggi potentissimi e di altissimo censo i quali spiegavano come e qualmente la Scala avrebbe dovuto aprire con Verdi e non con Wagner. In risposta, svolgo un brevissimo ragionamento ab absurdo partendo da me stesso. Io credo di sapere qualcosa in materia di storia, geografia, lingue e letterature antiche e moderne, lingua italiana, etimologie, glottologia. Sono ignorantissimo in materia di economia, di idrocarburi, di calcio, di sport in genere. Ebbene, se un bel giorno io salissi in cattedra e cominciassi a tenere una “lectio magistralis” sulla qualità del petrolio Brent, se spiegassi ai miei allievi il pensiero di Keynes o le sublimi riflessioni di Renato Brunetta, se scrivessi un trattato sulla tecnica di Balotelli, sarei deriso, beffeggiato, forse internato in manicomio. Ma allora, perché mai io devo tollerare che persone sapientissime in materia di economia, di idrocarburi, di calcio, ma ignorantissime in materia di musica, di letterature antiche e moderne, di storia, pretendano di dare lezione a me parlando di ciò che io, non essi, conosco? Oh, conosco l’obiezione: mi si dirà, intonando la solita solfa, che un teatro come la Scala e un teatro d’opera in genere costa moltissimo a spese dei contribuenti, e che perciò tutti i contribuenti cittadini italiani hanno il diritto di dire la loro a proposito della Scala e di qualsiasi teatro d’opera italiano. Replico con una controbiezione: l’attività giudiziaria, il funzionamento dei Tribunali e delle Preture, gli emolumenti dovuti ai magistrati, costituiscono un costo enorme per lo Stato, e tale costo è pagato dai contribuenti italiani, eppure io contribuente italiano non oserei criticare il metodo di lavoro quotidiano dei giudici e dei Pubblici Ministeri italiani, poiché non ho la competenza per farlo, così come altri non hanno la competenza per giudicare le scelte artistiche dei dirigenti di un teatro d’opera. Analogamente, i contribuenti italiani forniscono allo Stato, tramite il Fisco, il denaro per pagare gli stipendi di chi governa in Italia la sfera dell’economia, degli idrocarburi, delle ferrovie, delle poste, eppure noi contribuenti italiani non andiamo a dare uno spintone al manager dell’industria petrolifera, o al direttore generale di Equitalia, o all’amministratore delegato di Trenitalia, dicendogli: «Fatti in là, ché mi ci metto io!»
    Della furente contestazione “nazionalistica” da parte di coloro che avrebbero voluto Verdi e non Wagner il 7 dicembre alla Scala, l’Europa ha riso e sta ridendo ancora. I quotidiani austro-tedeschi e britannici hanno sghignazzato senza ritegno; sono apparsi titoli caricaturali che rifacevano il verso ai tromboni dell’italianità oltraggiata: «Mamma mia!». Insomma, la solita meschina figura, quella che stiamo facendo da vent’anni, e che è ancora nulla rispetto alla figura lacrimevole che faremo in un futuro prossimo. Da piangere!
    Ma arrampichiamoci su per le rocce, anche se la pendenza è dolomitica. Risaliamo dalle stalle alle stelle, e respiriamo.

    Due grandezze, due visioni dell’arte e del pensiero, due uomini; ci piace immaginarli simmetrici, paralleli. Questa nostra visione è insicura, e dev’essere verificata continuamente, di generazione in generazione, almeno fino a quando esisteranno le arti e, nel loro esistere, avranno significato nella società. Già questa persistenza di significato non è certa. L’Occidente è stato l’unica area planetaria nella cui tradizione e fisionomia le arti non si siano limitate a generare bellezza, anche mirabile, soltanto per decorare il potere o per rendere meno ripugnanti la credulità religiosa e il servilismo verso le caste sacerdotali. Soltanto in Occidente, le arti hanno legittimato la loro propria esistenza empiendosi di pensiero, di λόγος, di energia eletta a governare il mondo. Soltanto in Occidente, le arti sono riuscite, in una fase storica non remota, a non essere più mercimonio né potlatch circenses; “in una fase non remota”, poiché l’allegoria disegnata da Wagner nella fiaba Wieland der Schmied per una musica mai scritta denunciava gli obbrobri del passato, di un lungo passato. Quel destino di “non essere più” qualcosa di marginale e d’inessenziale di cui il mondo potrebbe anche fare a meno, e di “essere altro e più rispetto a ciò che si è stato”, ha assunto respiro più ampio e caratteri particolarmente vistosi nella musica che definisco “forte”, e che altri, in maniera impropria e insufficiente, si ostinano ancora a definire “classica”. È quella che io chiamo “musica” senza aggettivi. Nella cultura occidentale, la musica ha guadagnato il diritto a una metamorfosi axiologica: se ai tempi di Alcmane a Sparta, o di Orazio nella Roma di Augusto e di Mecenate, o di Hildegard von Bingen, e ancora, sia pure a metamorfosi in atto, ai tempi di Guillaume Dufay o di Bartolomeo Tromboncino, la musica era soprattutto seducente ed emozionante creatrice di stati d’animo, Jacopo Peri, Claudio Monteverdi, Giovanni Pierluigi da Palestrina, Tomás Luis de Victória sono già all’opera per sollevarla al rango che è la sua entelechia: quello di nodo di significati, di linguaggio con un proprio lessico, una propria morfologia e sintassi, un proprio tessuto cellulare interno in cui significante e significato siano in relazione indissolubile. Questa fenomenologia per così dire orizzontale e diacronica si associa a una fenomenologia verticale e sincronica, la quale accoglie in sé una singolarità, una sorta di contro-metamorfosi: un numero incalcolabile di musicisti, in ogni plaga d’Occidente, lascia coesistere l’antico e il nuovo, il passato e il futuro, ciò che la musica era stata e ciò che tendeva a divenire, ma si ravvisano due zone estreme in cui rari artisti di genio intendono la propria arte esclusivamente (o quasi) come linguaggio, pensiero, λόγος, verità, e altrettanto rari artisti di altissimo talento si appagano di connotati che certamente sono connaturati nella musica ma gravitano verso una concezione “naíve”: l’energia delle emozioni, la potente influenza sulla psiche e sul temperamento. Esempi del primo tipo: Gesualdo, Bach, Wagner, Debussy, Stravinskij. Esempi del secondo tipo: Händel, Telemann, Weber, Verdi, Saint-Saëns..
    Ci domandiamo: i due coetanei, Richard Wagner poco fa nominato e con un vantaggio d’anzianità di pochi mesi (Lipsia, sabato 22 maggio 1813 ‒ Venezia, martedì 13 febbraio 1883), e Giuseppe Verdi (Le Roncole di Busseto, Parma, sabato 9 o domenica 10 ottobre 1813 ‒ Milano, domenica 27 gennaio 1901), sono veramente due figure simmetriche, parallele? Si direbbe di no, se le mie precedenti considerazioni sono accettabili almeno in parte. L’immagine di due sommi custodi del pensiero, di due dioscuri dell’arte, è affascinante anche come ombra fuggevole, come immagine eidetica, e comunque s’impone con la forza irresistibile di una “Gestalt”. Talvolta accade che l’enfasi di un accostamento celebrativo e di una simbologia plaudente corrisponda davvero a due grandezze di pari misura, in equilibrio come il bianco giorno e la nera notte nella scacchiera di Borges, o come la fresca notte e l’afoso giorno nella poesia Der Tod, das ist die kühle Nacht di Heinrich Heine. Torna alla mente la Stanza della Segnatura (la “segnatura di giustizia”) in Vaticano: là, su commissione del papa Giulio II, Raffaello Sanzio (Urbino, venerdì 28 marzo o demenica 6 aprile 1483 ‒ Roma, venerdì 6 aprile 1530) affrescò nel 1509-1510 quattro grandi allegorie, una su ciascuna delle quattro pareti: la Teologia, la Filosofia, la Giurisprudenza, la Poesia. L’allegoria filosofica è La Scuola di Atene: al centro della gloriosa architettura e della folla di teste pensanti in drammatico movimento, campeggiano Platone e Aristotele, indicanti, il primo, il cielo delle idee, il secondo, la terra delle cose reali. Torna alla mente anche il monumento che s’innalza nel Theaterplatz di Weimar, effigiante in bronzo i dioscuri della poesia tedesca, Johann Wolfgang von Goethe (Francoforte sul Meno, giovedì 28 agosto 1849 ‒ Weimar, giovedì 22 marzo 1832) e Friedrich Schiller (Marbach sul Neckar, nel Württemberg, sabato 10 novembre 1759 ‒ Weimar, giovedì 9 maggio 1805). Si affacciano alla memoria storica di ogni intelligenza d’Occidente degna di questo nome i dettagli storici che evocano intorno al “Goethe-Schiller-Denkmal” un’aura di vera e grande passione nazionale, etica e civile:
     l’iniziativa di Karl Alexander August Johann von Sachsen-Weimar, granduca di Sassonia-Weimar-Eisenach;
       l’originaria assegnazione dell’impresa allo scultore Christian Daniel Rauch (Arolsen in Assia, allora principato di Waldeck, mercoledì 2 gennaio 1777 ‒ Dresda, giovedì 3 dicembre 1857), che avrebbe voluto rivestire i due poeti con abiti di antichi eroi;
      la ragionevole decisione di rivolgersi a Ernst Friedrich August Rietschel (Pulsnitz in Sassonia, sabato 15 dicembre 1804 ‒ Dresda, giovedì 21 febbraio 1861), che optò per abiti moderni, sì da “far vivere” i due poeti fra i cittadini di Weimar;
      la divertente ma non frivola scelta di attribuire la medesima statura a Schiller, alto m. 1,90, e a Goethe, alto m. 1,69;
   l’opera perfetta del maestro fonditore Ferdinand von Miller (Fürstenfeldbruck in Baviera, lunedì 18 ottobre 1813 ‒ Monaco di Baviera, venerdì 11 febbraio 1887) che realizzò le due figure in bronzo;
    l’inaugurazione avvenuta venerdì 4 settembre 1857 per celebrare il centenario della nascita di Karl August, il granduca di Sassonia-Weimar che aveva voluto la presenza di Goethe alla propria Corte e alla guida del più che illustre e glorioso Großherzögliches Theater dove Franz Liszt, con ardimentosa scelta e sfidando le infamie del potere di un re che aveva condannato Wagner alla fucilazione, diresse la prima “illecita“ rappresentazione di Lohengrin;
      la memorabile esecuzione a Weimar, al culmine di quei festeggiamenti, della Dante Symphonie di Liszt (Hoftheater, sabato 7 novembre 1757).
     Ho profuso questi dettagli non per amore di inutili pleonasmi. Volevo sottolineare due casi di reale simmetria, di parità nella statura artistica e nella funzione storica. Ciò vale anche per Verdi dinanzi a Wagner? Non credo. L’unico elemento unificante ha certo molta visibilità ma non è decisivo: entrambi i compositori di dedicarono al teatro d’opera con impegno quasi esclusivo, aggiungendo al proprio rispettivo lascito pochi lavori non teatrali. Per ciascuno dei due, al di là della drammaturgia musicale soltanto una o due o al massino tre delle altre composizioni sono importanti e degne di essere riascoltate più volte: di Wagner, i Wesendock-Lieder; di Verdi, il Requiem, i Quattro pezzi sacri, il Quartetto in Mi minore. Si pensi, a proposito di Wagner, alla differente distribuzione dei pregi tra le opere teatrali di Weber e le bellissime partiture sinfoniche e cameristiche di lui; a proposito di Verdi, alle composizioni pianistiche e vocali di Rossini, nonché alla Petite Messe Solennelle. In ogni caso, un elemento che accosti Verdi e Wagner quasi parificandoli ma che sia pur sempre una considerazione di una comune mancanza e non di una comune acquisizione, mi pare l‘anello debole di un ragionamento.

     Verdi ha tentato la commedia due volte. La prima, con Un giorno di regno, è stata un esito mediocre non perché l’autore non avesse inventiva, ma poiché il contesto, fondato sulla trama degli equivoci di tipo menandreo-plautino, non gli si adattava. La seconda occasione, Falstaff, fu il capolavoro assoluto, una delizia per l’intelletto, per l’epidermide e per i cinque sensi. Ma sono miracoli che avvengono una sola volta. Per il resto, Verdi è l’artista della tragedia in musica: delle forti passioni, dell’inarrestabile, dell’elementare, sino al limite intuito da Carl Dahlhaus: il macabro, il sinistro, l’orrore puro in cui si agitano le ombre dei Mystères de Paris di Eugène Sue. La sua grandezza di uomo di teatro, fabbricato con sostanza di teatro da madre Natura, è nel mostrare l’esistente puro. Jean Racine, nella sua prefazione alla tragedia Britannicus (1676), scrisse che Tacito era stato “le plus grand peintre de l’antiquité”. Analogamente, affermo che Giuseppe Verdi, in musica, è stato il maggior pittore del secolo XIX.
    Wagner, invece, perfora l’esistente, passa attraverso, disfa e dissolve l’esistente nell’acido di una sostanza alchemica, che vince ogni scepsi, questa volta. Wagner, sciogliendo l’esistente in musica, nella sfera in cui la musica è soggetto e insieme oggetto del dramma, autore e personaggio, mostra come il destino finale di tutto sia inevitabilmente il Nulla. Nessuno negherà più che sia tragico il destino dell’Occidente prefigurato da Oswald Spengler, e gridato con nobile odio, alla fine del precedente ciclo di civiltà, da Rutilio Namaziano nel De reditu (I, 25-26):

Praesentes lacrimas tectis debemus avitis:
prodest admonitus saepe dolore labor.

    Come ho scritto nel mio saggio Richard Wagner, cifra dell’Occidente (luglio2012), «riconosciamo nella crudele sorte della filosofia d’Occidente il rivelarsi a poco a poco di quella forma simbolica che non sembra appartenere al pensiero occidentale: il circolo, la linea chiusa, la fine dell’evoluzione e dell’espansione del cosmo? La conoscenza che fiorisce e vola verso l’invisibile? Il tempo come cerchio ? L’anello dell’eterno ritorno? Questo destino è senza dubbio una punizione: una Nemesi. Ma lo è nel dominio dell’Avere. Non punizione, bensì salvezza nella sfera dell’Essere, dove la forma circolare che sa trasformare il tempo in spazio raffrena e doma l’eterna, inarrestabile consunzione. Richard Wagner è colui che innalza la linea circolare (il “Ring”, l’anello che compie magie supreme, lo spazio sacro del Gral, la relazione Tristan-Isolde o Siegmund-Sieglinde) alla sfera dell’Essere, e la libera dalla catene dell’Avere. La musica di Wagner annuncia (non soltanto in senso simbolico) la possibile salvazione da due velenose e mortali radici: la filosofia di Hegel e il Cristianesimo. Questa musica è l’incanto del crepuscolo che all’improvviso s’infiamma, il fuoco che, vittorioso, arde il cielo».
     Così scrivevo, e così mi propongo di agire “usque ad sanguinem”:

     La disparità tra Verdi e Wagner risulta ancor più forte, inequivocabile, nella diversa collocazione dei due compositori in merito al processo di metamorfosi della musica occidentale. Lo sappiamo tutti che Verdi, anche il meno affinato, anche quello dello “zúm-papa‒zúm-papa“, è capace di scatenare passioni, e che riesce a sedurci e a portarci al delirio. Ma è Wagner colui che trasforma la musica occidentale in linguaggio, difficile ai neofiti, ma intelligibile ai fedeli. E più ancora: a partire da Tristan und Isolde, a partire dal “Tristan-Akkord“, egli compie una seconda metamorfosi, che è, a dire il vero, una transustanziazione. La musica di Wagner non è più simbolo dell’universo condensato in suoni, ma universo creato dai suoni, anzi, rintracciato e identificato nei suoni dopo una queste du Gral e dopo una consacrazione della fisicità connaturata nei suoni. Il motivo iniziale di Tristan und Isolde non è simbolo del filtro d’amore: è il filtro d’amore. Il pedale e l’arpeggio di Mi bemolle non sono il nodo simbolico dell’origine dell’universo: sono l’origine dell’universo, e ogni volta che li udiamo, misteriosamente in una parte inconoscibile di ciascuno di noi, a quell’ascolto emergono dal Nulla come universo. Ciò significa, semplicemente, che nelle mani di Richard Wagner la musica può essere Dio, e che Dio, semplicemente, potrebbe essere null’altro se non la musica.

QUIRINO PRINCIPE


Milano, 2 febbraio 2013



Invia un commento
Amici della ScalaAmici della Scala