Intervista a Antonio Rostagno
Anna Crespi intervista il professor Antonio Rostagno docente di drammaturgia musicale e storia della musica presso l’Università di Roma “La Sapienza”, facoltà di Lettere e Filosofia. Ha pubblicato in diverse lingue libri musicali e collaborato con le maggiori enciclopedie musicali.
Come vivi l’insegnamento con i tuoi studenti?
Il mio impegno è soprattutto vivere con loro e cercare di far nascere in loro la passione, la capacità di riflessione e di autocritica, per trovare se stessi.
Quanti anni restano con te?
Cinque anni. I primi tre ho circa cento studenti e i restanti due anni di laurea magistrale i ragazzi sono circa quaranta.
Riesci a conoscere i tuoi studenti e a creare un legame con loro?
È difficile instaurare un rapporto soprattutto durante la Laurea Triennale (cento studenti per aula). Nel periodo Magistrale (quaranta studenti). Le lezioni più belle sono quelle con pochi studenti, dieci o anche meno.
Organizzo tante cose anche al di fuori dell’università: andiamo a teatro, alle conferenze, a volte ai convegni in trasferta, e perché no anche a cena la sera; insomma cerco occasioni per conoscerli meglio.
Sei favorevole al numero chiuso?
Tutti possono iscriversi, ma è necessario mettere dei semplici criteri di selezione basate sul merito: ad esempio, se si devono sostenere otto esami l’anno, bisogna superarne almeno quattro.
Come instauri un rapporto umano con i tuoi studenti?
Mettendomi al loro servizio. Parecchi di loro sono rimasti miei amici anche dopo la laurea e ci frequentiamo.
Ci sono differenze di flessibilità tra uomini e donne?
Sarò sincero. Rispetto a dieci anni fa gli studenti sono più flessibili e adattabili. Ma le donne hanno, comprensibilmente data la società in cui viviamo, una coscienza e una preoccupazione per il futuro che genera in loro a volte eccessiva paura e spesso scoraggiamento. Non che questo non si verifichi anche negli uomini, ma forse questi sono un po’ più incoscienti, forse anche più superficiali; ma questo, che pur può essere un difetto quando è in eccesso, permette loro di buttarsi con tutta l’anima nel presente. Non so dire quale dei due atteggiamenti sia quello vincente. Le donne lavorano con una precisione più affidabile, ma hanno spesso una preoccupazione per il futuro tale che a volte blocca il loro entusiasmo.
È difficile essere bravi professori?
È considerato un bravo professore chi conosce bene la propria disciplina, ma non credo sia sufficiente: credo che il bravo professore non dovrebbe limitarsi a “professare”, ma debba tentare di abituare gli studenti a riflettere. Di solito un docente che aiuta a riflettere è quello che ha maggiore apertura a idee diverse dalle sue; e questo lo ottiene soltanto leggendo molto, anche cose lontane dalle sue vedute.
E i professori cosa leggono?
Lo storico, il letterato o il musicologo sono costretti anche per lavoro a leggere libri molto lontani dalla loro mentalità. Sono abituati a incontrare sistemi di pensiero diversi dai propri e questo educa al dialogo. Nei parlamenti del mondo dovrebbero esserci più persone provenienti dalle discipline umanistiche, non perchè più sapienti degli altri (conosco medici e avvocati che hanno approfondita conoscenza musicale, letteraria o filosofica), ma perché per lavoro sono abituati a confrontarsi con sistemi di pensiero e con opinioni a volte opposte alle proprie, eppure cercare di comprenderle nel loro giusto peso. In una parola: si tratta di una educazione al rispetto reciproco, anche e soprattutto nelle diversità.
Rileggere un libro già letto, ti può ancora cambiare?
Certamente sì. Ogni volta che leggo Dostoevskij mi ritrovo diverso. Così come ogni volta che riascolto il Don Giovanni d’altronde.
Tu sei il promotore del bando di concorso “in discipline musicologiche” con gli Amici della Scala, che proseguirà negli anni. C’è un obiettivo?
Lavorare bene per il Bando deve avere come obiettivo la riapertura dei fondi destinati alla ricerca. Servono maggiori fondi. Solo dieci anni fa lo Stato Italiano elargiva alle discipline musicologiche circa il 50% in più. Ora la Università investe nella musicologia una cifra esigua. Soltanto venti anni fa c’erano possibilità di andare all’estero per studio molto più generose di oggi.
Che premio avrà lo studente?
Il premioè assegnato a un solo studente. Nascerà una pubblicazione edita da Feltrinelli e il vincitore sarà presentato alla Scala nel Ridotto dei palchi “A. Toscanini” con un concerto e una cerimonia.
A parità di merito, come si seleziona un vincitore?
“Non si può aiutare tutti, non è possibile. È come non aiutare nessuno.”
Non è mai bello fare una graduatoria, ma bisogna fare delle scelte. E ogni scelta non può che avere una componente soggettiva, imponderabile, legata alla situazione. Pur nonostante è stata formata una commissione con studiosi internazionali di chiara fama e si è arrivati ad un giudizio paritario e collegiale.
Come affronti la grande responsabilità umana della scelta?
A volte si sceglie qualcuno a scapito di un altro, ed è qui che entrano in gioco anche le affinità umane. A volte tra i più bravi si sceglie il più affine. E questo è inevitabile.
Ci parli di problemi di fondi. Quando è nata questa disaffezione nei confronti della ricerca?
Da circa dieci anni, direi dal 2001.
Qual è il motivo?
È la società che è cambiata e che ha avuto un’influenza e un peso sociale nelle università.
Cosa ci guida oggi?
Medicina, Legge, Ingegneria, con le facoltà tecniche in prima fila.
Lettere e Filosofia sono tra le ultime scelte, inutile nasconderlo.
Io capisco l’importanza delle facoltà scientifiche, senza le quali non si reggerebbe la società attuale.
Ma voglio fare un esempio simbolico. Immaginiamo due isole di cento abitanti ciascuna. Per entrare in contatto serve un ponte, e senza ingegnere non si può costruirlo; su questo siamo tutti d’accordo. Tuttavia prima e dopo la costruzione inevitabilmente sorgono problemi di convivenza, che non si risolvono certo con la tecnica: anzitutto chi lo paga? E poi chi ne sarà proprietario? E ancora: se una volta costruito il ponte queste due isole iniziano a farsi la guerra? Allora era meglio non realizzarlo. E a questo punto non bastano i tecnici; senza l’educazione etica data dalle scienze umane, senza filosofia, senza capacità di dialogo (che il sapere tecnico esclude, poiché mira alla sola certezza dimostrabile e indiscutibile) non si possono gestire i rapporti fra gli esseri umani. In conclusione, deve esserci equilibrio tra i due campi disciplinari, e soprattutto rispetto reciproco fra persone con formazioni e opinioni diverse.
E oggi c’è questo equilibrio?
Numericamente si è quasi equilibrato. Ma il problema non è più nei numeri, quanto nella mentalità.
La storia deve avere i suoi cicli, i suoi tempi. Abbiamo portato all’estremo la deriva tecnicista, e forse era necessario. Adesso è il momento di trovare un equilibrio tra la mentalità scientifica e la mentalità umanistica. La filosofia aiuta l’individuo a riflettere su se stesso, mentre l’idea di metodo propria della scienza mira all’oggettività, non alla particolarità di ogni individuo, di ogni opinione. L’uomo ha bisogno di entrambe le discipline. La mentalità metodica è sì importante, necessaria, ma espone sempre al rischio di annullare le individualità, con tutti gli imprevisti emozionali che rendono la vita degna di essere vissuta.
Cosa abbiamo perso?
Il dialogo.
Cosa intendi per dialogo?
Arrivare a un punto comune, e arrivarci insieme: per trovare questo accordo ognuno deve essere disposto a cedere qualcosa. Significa riconoscere che il mio interlocutore la può pensare diversamente. Ed essenziale al dialogo è la predisposizione a riconoscere che io posso aver sbagliato, non il preconcetto che sono sempre gli altri a sbagliare; la predisposizione, per dirla diversamente, che sono pronto a chiedere scusa e accettare qualcosa che non avevo capito, ma che il mio interlocutore aveva pensato prima e forse meglio di me.
Il dialogo ha a che fare con l’anima?
Certamente sì, e cerchiamo di conservare dentro di noi quello che possiamo, guardando ai propri errori.
Cosa impedisce il dialogo?
Ha sempre a priori ragione chi detiene il metodo (nella illusione che ne esista uno unico e universale): da questa prospettiva, nelle opinioni personali non c’è certezza, e quindi sono considerate deboli soggettivismi davanti al Metodo con la maiuscola. Questa mentalità provoca spesso personalità rigide, intolleranti; e le persone che non si mettono in discussione mi provocano scetticismo e preoccupazione.
Qual è la tua visione della musicologia oggi? Pensi che in Italia sia poco considerata?
Penso che stia cambiando molto, siamo in una nuova fase di apertura. In Italia la musica è sempre stata esclusa dagli insegnamenti della scuola dell’obbligo e dei licei; ma ora sembra farsi strada nella cultura generale un rinnovato e serio interesse per la musica come espressione di cultura, non solo come svago. D’altro canto la musicologia non è più una scienza autoreferenziale, ma dialoga con gli italianisti, con gli storici, con gli antropologi. Questo dialogo forse porterà la musica in un tempo non troppo lontano a divenire parte dell’istruzione e della formazione generale dell’uomo.
I giovani credono ancora nella ricerca e negli studi post-laurea, oppure c’è una flessione?
E’ possibile che ci sia una flessione, ma perché nei primi anni in cui entrò in vigore il nuovo ordinamento 3+2 (la cosiddetta “legge 509”) c’è stato un eccessivo allargamento delle iscrizioni.
Per quanto riguarda la specializzazione post-laurea, a Roma abbiamo un dottorato con tre indirizzi: Musicologia, Cinema e Teatro, ed eroghiamo tre borse di studio ogni anno. Ma so che anche a Milano la situazione è vivace.
Quando sei entrato stabilmente in università?
A quarant’anni, dopo otto di precariato, oltre al periodo di dottorato e al post-dottorato. In sintesi: ho fatto dodici anni di precariato fra borse, assegni e contratti a breve scadenza.
Quindi il precariato c’è sempre stato?
Sì. Il grande errore era l’organizzazione di concorsi pubblici per mille persone alla volta come succedeva nei decenni dello spreco. La malattia diffusa era la “sindrome della mamma” come la chiamava Fellini; si pensava che la “mamma-stato” dovesse essere responsabile per ogni individuo. Ma questo sistema non poteva andare avanti. Un sistema così rappresenta un errore sia per i convinti sostenitori dello stato assistenziale sia per gli avversatori di questo sistema, che ancora oggi, almeno idealmente, rappresenta tuttavia la più alta conquista della civiltà occidentale.
Secondo te il precariato può durare tutta la vita?
Un uomo che per tutta la vita è precario è troppo esposto ai capricci di chi sale al potere (e ci sono vari gradi e vari tipi di ‘potere’, non solo quello politico, ma in tutti i campi anche nel nostro settore universitario); per dirla con un’espressione un po’ drammatizzata, diventa uno schiavo. Il posto fisso deve arrivare, o la società può diventare viziata e sarebbe troppo facile manipolare e ricattare le persone. L’obiettivo della stabilità deve esserci e il posto assicurato può arrivare tardi, ma deve arrivare.
Un giovane di talento prima o poi ce la fa?
Sì, ma deve incontrare le persone giuste e fidarsi. E avere pazienza. Oltre ovviamente a non demoralizzarsi e non mollare neanche dopo anni di lavoro ‘non protetto’.
Secondo te c’è il rischio che una volta ottenuto il posto fisso, il giovane si adagi?
Se si arriva alla stabilità a quarant’anni passati, dopo che per tutta la vita si è mantenuto uno standard di lavoro alto e ci si è affidati solo alle proprie capacità, è difficile che ci si adagi; certo, da chi a venticinque anni ha avuto tutto su un piatto d’argento, c’è da aspettarsi che si adagi o che sia convinto che tutto gli è dovuto. Io continuo ad avere stimoli intellettuali desiderio di sperimentare nuovi progetti culturali ogni giorno senza adagiarmi.
Noi Amici della Scala abbiamo sviluppato una comunicazione web importante. Cosa ne pensi?
E’ fondamentale integrare i diversi mezzi di comunicazione, soprattutto web. Forse con Facebook, Twitter e simili è più difficile trasmettere il dialogo, ma è oggi un canale primario per diffondere le informazioni.
C’è un insegnamento che vorresti condividere con noi?
Pierluigi Petrobelli, mio professore e maestro di vita, mi ripeteva sempre “bisogna fare le notti!”, intendendo che lo studio non dà tregua, che l’idea va perseguita anche di notte, se necessario.
Io ora, a cinquant’anni, non ho più l’energia che avevo da giovane. Ma sono convinto che l’energia passi attraverso gli individui. L’energia ci è stata data e si trasmette da persona a persona, da una mente all’altra. E quindi quella energia che mi ha permesso di “fare le notti” con Verdi, con Schumann, con Wagner o con Donizetti ora si sta lentamente trasmettendo a cervelli più giovani e agili del mio. L’insegnamento che desidero condividere, quindi, è questo: le menti più avanzate negli anni e nel sapere, più usurate da studi, tensioni e persino depressioni, hanno il dovere di aiutare le menti fresche e più giovani a maturare, per lasciarsi superare volentieri in un domani non troppo lontano.